La prima sensazione che resta, al termine di Diciotto carati, è che per scriverne bisognerebbe usare mille e mille volte la parola “Napoli” in tutte le sue derivazioni semantiche, nonché scomodare alcuni dibattiti significativi come quello proposto dal personaggio del critico Bizzarro,quando ricorda Domenico Rea e Raffaele La Capria; ma sulla differenza fra napoletanità e napoletaneria torneremo più avanti, dopo esserci soffermati sulla nascita di questo progetto, che forse è anche la chiave per cercare di dipanare i dubbi che conserva lo spettatore.
Diciotto carati è stato commissionato dal Napoli Teatro Festival allo scrittore cileno Esteban Antonio Skàrmeta e successivamente affidato alla regia di Giovanni Sacchetti: paternità ed interpretazione dunque in capo ad artisti che di Napoli hanno vissuto immagini sporadiche e pertanto più facilmente passibili di autoindulgenza, se non di acquarellismo, e tuttavia il risultato finale è impregnato, soprattutto nella traduzione dalla scrittura, nella presenza di battute ad hoc e nelle fasi finali, di elementi pensosi e pungenti che suggeriscono l'idea di averci voluto mostrare in ogni sua parte un affresco anche ironico: è un’impressione supportata dalla presenza del critico Bizzarro, e da un elemento non secondario come è l'ottimo, coinvolgente accompagnamento narrativo delle musiche di scena e delle canzoni di Giulio Fazio e Valerio Sgarra.
La storia incastra elementi tradizionali della napoletanità quali l'emigrazione, la saga delle grandi compagnie di attori del passato, ed il coinvolgimento della parte più popolare della città in un progetto che riscatti (parolona!) qualcosa della loro miseria e dia l'idea del possiamo farcela, possiamo cambiare tutto con la forza della volontà. Ma si!
Vinicio Buontempo (nessun nome sia a caso...), autodefinitosi attore senza nessun talento né espressione, è il nipote dell'ex famoso attore Cosimo, andato via da Napoli per essere stato ferocemente stroncato dalla critica del tempo (un po’ poco, diremmo: se tutti facessero così...); questi gli affida le sue ultime volontà: tornare a Napoli, rilevare il suo vecchio teatro e “vendicarlo”, mettendo in scena uno spettacolo di successo, qualunque esso sia, che ri-nobilitasse infine il suo antico buon nome.
“Perché scegli proprio me, il più appassito dei gigli, per sembrare un fiore giallo e splendente?” è la sua domanda, ma è chiaro che tenterà fino in fondo di esaudire l'ultimo desiderio del nonno, sicché fra il tenere il teatro o venderlo, nel continuo dubbio (e nel continuo richiamo, guarda caso, ad Amleto) fra la vendetta e l'abdicazione (“cosa gliene importa a Dio, lassù, della tua piccola storia?”), si ritrova anche a nuotare in un ennesimo luogo comune quale la morale della coscienza sociale e del teatro del popolo. E va avanti, fino all'immaginabile lieto fine, comprensivo perfino di un amore nato sulle assi del palcoscenico. Evviva.
In una bella scenografia a metà fra le pezze di Resina ed i panni stesi nei vicoli, due installazioni video proiettano ininterrottamente i filmati in bianco e nero di Luigi Pingitore, in cui il protagonista si aggira bendato per Napoli, richiamando l'idea dello straniero che giungendo a Napoli, comprende che il miglior modo per sentirne l'anima è quello di ascoltarne suoni ed odori, insomma intuirla coi sensi.
Questo è proprio ciò che deve essere accaduto alla scrittura, nel suo tentativo di percepire la napoletanità, quella ereditata dalle ferite ataviche, senza scivolare nell'esibizionismo delle sue cartoline, nel masochismo del degrado e nella spontaneità senza ironia (ecco la napoletaneria): è un retrogusto che persiste e pone domande sulla riuscita del sottrarsi essa stessa al manierismo ed a quella oleografia che pure denuncia, riuscendoci anche con continui, piccoli movimenti di scena e battute specifiche.
Nel finale, in mezzo ad una “spasa di panni” di notevole effetto che attraversa l’intero teatro, e dopo le… ultime parole famose del critico Bizzarro e la canzone dell'orchestrina Le conseguenze del bancone (“Ho sognato che Napoli diventava il discount più grande del mondo, dal mare all’agro aversano, gestito da cinesi nati a via Baku…”) arrivano però le risposte più inequivocabili: quella che abbiamo visto, è la favola universale dello spaesato che non ha né trova radici, e che cerca la sua patria altrove, un altrove che in quanto napoletano fa acrobazie per evitare l'oleografia di un testo rispettato, ma reinterpretato ed addizionato infine di salvifica ironia.
Teatro